Le fontane di Chiomonte
Vino e acqua tra botti e fontane
Chiomonte, il paese più orientale dell’Occitania, è un comune ricco d’acqua: in passato le fontane del borgo, tutte risalenti al Cinquecento, erano sette e venivano utilizzate per le necessità di tutti i quartieri del comune. Una si trovava al fondo della borgata Peui, una al Cantoun, una a Rìou,… Ciascuna di esse aveva una forma e un decoro diverso (il delfino di Francia, il giglio,…) e all’interno del capoluogo se ne trovava una realizzata addirittura dall’unione di tre fontane diverse.
Tra quelle superstiti ce n’è una che appare insolita rispetto alle altre: in essa è presente una pietra del 1562, insieme ad una colonna di pietra che apparteneva in realtà ad una fontana del 1888, che riporta una figura antropomorfa.
La ricchezza d’acqua del comune è legata alla figura di Colombano Romean, un personaggio storico che nei primi anni del 1500 scavò da solo un’apertura nella montagna per portare l’acqua dal Vallone di Tullie alle borgate di Ramats e di Cels nel Comune di Exilles, perché erano prive d’acqua e i terreni erano aridi.
La ricchezza d’acqua e di fontane di Chiomonte è strettamente legata alla coltivazione della vite ed alla sua lavorazione: sullo stemma del comune la scritta Jamais sans tois (“mai senza di te”) separa due grappoli, uno di uva nera e uno di uva bianca, dal sole a sottolinearne la necessità per la maturazione.
Nell’area di Chiomonte, in cui vite e vino avevano un’importanza notevole, la vite era spesso coltivata a quote superiori ai 900 metri: l’uomo ha dovuto compiere un lungo ed immane lavoro di terrazzamento, asportando sassi ed apportando terra e concime. La scarsità di fieno e di pascoli permetteva a poche famiglie di mantenere un mulo al posto di una vacca, perciò mancava il trasporto a soma: esso era svolto dagli uomini, con le gerle (‘l gärbin) per la vendemmia, per il letame, per il riporto annuale della terra dal fondo dell’appezzamento alla sua testata; un otre di pelle di capra serviva per trasportare il vino; solo raramente e per trasporti verso valle si usava una slitta di legno.
Per evitare tali fatiche spesso si vinificava nei pressi delle vigne, in appositi casotti dotati anche di stalle, in modo che il bestiame consumasse l’erba della vigna e producesse il letame sul posto.
Il vino ottenuto alle quote maggiori probabilmente era spesso di qualità limitata, perciò era destinato all’autoconsumo, in modo da poter vendere il prodotto migliore proveniente dalle vigne poste ad altitudine inferiore. Il vino “di seconda”, da bere prima del caldo estivo perché facilmente deperibile, era ottenuto spremendo le uve che rimanevano, dopo aver scelto i grappoli migliori, insieme alle vinacce. Un’alternativa era la pikëtto, ottenuta dalla fermentazione delle vinacce con l’aggiunta del succo di pere e mele.
A Chiomonte la memoria tramanda che si “piantavano viti dappertutto”(*), in una realtà rimasta favorevole fino al 1904, periodo in cui è iniziato il declino, cui hanno dato una mano la scarsità di braccia nella prima guerra mondiale, l’epidemia di spagnola, le distruzioni provocate dalla fillossera nel 1930 e la carenza di manodopera nell’ultima guerra, nonché il crollo definitivo di vendita, produzione e coltivazione, dipeso dalla crisi dell’agricoltura montana.
Questa tradizione vitivinicola plurisecolare è testimoniata dalla Corsa delle botti che si tiene a Chiomonte a settembre, una manifestazione che sa di competizione sportiva e di rievocazione storica. La gara si ispira ai lavori per il riordino delle cantine che un tempo precedevano la vendemmia: le botti destinate ad ospitare il vino novello venivano portate fuori dalle cantine e lavate alle fontane di pietra, presenti in paese, per rimuoverne i fondi.
Con questa gara si celebra il vino ottenuto da uve Avanà, che è il vitigno principe della Valle di Susa e che viene coltivato da secoli nei vigneti che circondano il paese e non solo.
(*) M. Di Maio “Avënā, Biquèt, Nibiò, Müscat… Vigne, vendemmie e vini nell’Alta Valle della Dora Riparia”, Ed. Valadas Usitanos
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